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Rubens Pietro Paolo

Sacra Famiglia, 1602-1606

 olio su tavola, cm 102x78

“L’esibitore della presente sarà Pietro Paolo Fiammingo mio Pittore, qual mando costa’ [a Roma] per copiare e fare alcuni quadri di pittura, come più diffusamente V.S. Ill.ma piacendole intenderà del medesimo”.

Questa lettera di raccomandazione fatta scrivere il 18 luglio 1601 dal duca di Mantova Vincenzo Gonzaga ed indirizzata al card. Alessandro Peretti Montaldo a Roma apriva metaforicamente e poi anche fisicamente al ventiquattrenne Peter Paul Rubens le porte della città eterna per il suo primo, breve, soggiorno romano.

Il livello artistico del giovane pittore era già notevolissimo: divenuto formalmente “maestro” ad Anversa, Rubens non arrivava a Roma spaesato e alla ricerca di protezione: vi era stato madato per lavoro, con uno scopo preciso da un signore, il Gonzaga, che lo avrebbe continuato a pagare e che solo l’anno successivo gli avrebbe chiesto di andare in Spagna.

Fu con tutta probabilità proprio a Roma, nel suo primo soggiorno, che Rubnes inizio’ a dar forma a quella tipologia iconografica completamente originale che e’ la “Sacra Famiglia con sant’Elisabetta, San Giovannino e la colomba”.

Fin dalla meta’ del XVIII secolo la composizione, ambientata in uno sfondo romantico, era nota grazie ad una stampa di riporto. Sul bordo inferiore della stessa e’ riportata la frase: “Cum essem parvulus sapiebam ut parvulus” (dalla lettera di San Paolo ai Corinzi 13, 11). Queste versioni a stampa furono attribuite a Rubens in maniera dubitativa, e furono messe in relazione con altri dipinti del periodo italiano del pittore (soprattutto la “Sacra Famiglia” di Rubens oggi a Palazzo Pitti).

Fu nel 1893 che H. Hymans segnalo’ (pubblicandolo solo nel 1927) un dipinto di egual soggetto. Il dipinto si tovava nel 1925 a Londra presso A.L. Nicholson da dove poi passo’, in quello stesso anno, nella collezione di William H. Moore a New York. Nel 1955 il dipinto fu donato da Mrs. Ada Small Moore al Metropolitan Museum di New York, dove si trova tutt’ora (olio su tavola, cm 66 x 51,4).

Nel 1927-1928 il dipinto fu esposto al pubblico per la prima volta nella mostra tenuta presso la P. Jackson Higgs Gallery di New York: in quella occasione Valentiner ne propose, sulla base della struttura della composizione, una datazione al 1602-1605, incontrando tuttavia l'opposizione di alcuni critici: sia E. Simple, sia F.E. Washburn Freund, recensendo la mostra, ne sostennero con forza una datazione ad un periodo posteriore. Washburn Freund, in particolare, sottolineò la contraddizione tra la composizione, che appare ispirata a modelli italiani (e che dunque e’ tale da giustificare, a rigor di logica, la data proposta da Valentinier), e lo stile e la tecnica di pittura del dipinto, che appaiono di un’epoca piu’ matura.
Nel 1930 L. Burchard pubblico’ il secondo dipinto, conservato oggi al County Museum di Los Angeles come un autografo di Rubens con la datazione al 1609 circa.
All'inizio del secolo l'opera (olio su tavola, cm 138,4 × 120,7) si trovava nella raccolta del conte Kospoth, a Briese bei Ols, in Slesia: nel 1930 fu comprato da Gustav Nebehay, di Berlino; entrò poi nella raccolta di Gustav Oberlander di Reading (Pa), dove rimase fino al 1947.

Nel 1936 i due dipinti furono esposti per la prima volta insieme a Detroit: sulla base del raffronto diretto effettuato in quell'occasione, la tavola Oberlander fu ritenuta l'opera definitiva, mentre nel dipinto Moore si identifico’ il modello: ad entrambe le opera fu attribuita una datazione al 1609-1610. Per quanto riguarda la stampa, E. Siple, nella sua recensione alla mostra, ritenne che essa fosse tratta dal quadro più grande, benché in certi dettagli del panneggio essa sembrasse seguire quello più piccolo. Nel 1946 la versione Oberlander torno’ sul mercato antiquario di New York; di qui’ entro’ in quello stesso anno nella racconta di Frederick Mont di New York, e fu esposta in una mostra organizzata da Valentinier a Los Angeles dove era accompagnata dal dipinto che presentiamo in asta.
Qualche tempo dopo, nel 1952, l’opera passò nella collezione di Ch.F. Sandborn di Los Angeles: alla morte di quest'ultimo fu acquisito dal County Museum grazie al Colonel e Mrs. George J.Denis Fund.

Sull’autografia del dipinto del County Museum la critica (a partire da Valentinier, che lo definì “una delle più importanti composizioni del periodo dopo il ritorno dall’Italia) più volte si era espressa unanimemente in modo positivo: una nuova pulitura effettuata poco prima del 1984, aveva spinto la critica a ribadire ancora una volta l'autografia.
Tuttavia recentemente l'opera ha subito una retrocessione allo stato di copia e ciò appare una conclusione definitiva.

Diverso è il caso del dipinto del Metropolitan Museum che, fino a tempi assai recenti, perlopiù è stato ritenuto il modello, benché eccessivamente rifinito, di quello del County Museum, ed è stato datato generalmente a dopo il ritorno ad Aversa tra il 1608 ed il 1610.
Ma altri, tra cui soprattutto M. Jaffe’ lo hanno creduto una semplice copia di quello più grande: in particolare gli stessi curatori del Metropolitan lo classificarono come “copy after Rubens” nel 1980.
Nel 1984 Liedtke, premettendo che “la qualità non è omogenea anche se niente fa presumere che questo lavoro sia di più mani”, individuandovi un modellato “discontinuo” nelle varie parti, e notando che il pannello è particolarmente grande per essere un “modello” non finito, lo classifico’ come “attribuito a Rubens”. Appoggia l'attribuzione a Rubens lo Scribner che ipotizza che almeno una delle tavole tra quelle di Los Angeles e quella di New York sia da attribuire, almeno in parte, ad assistenti di studio; cosicché Scribner pensa che gli assistenti, partendo dalla prima stesura (quella del Metropolitan), abbiano allargato le porporzioni nella versione di Los Angeles, alla quale Rubens abbia aggiunto poi dei ritocchi finali.


Liedtke è ritornato sull'argomento nel 1992, ribadendo l'opinione già espressa nel 1984, e sottolineando i confronti stilistici con la “Vergine adornata di fiori” di Rubens che si trova a Vaduz nella collezione dei principi di Liechtenstein. Egli ritiene autografa la versione di New York e nonostante le sue disomogeneità esecutive, sembra propendere a considerarla un'opera finita (da conservare o da vendere) piuttosto che un modello. Allo stesso momento Liedtke ritiene il dipinto di Los Angeles una redazione autografa successiva, approntata forse per una chiesa.
Poiché la versione di Los Angeles e’ da qualche anno ritenuta una copia, dal 1995 i curatori del Metropolitan hanno classificato il loro dipinto come originale. Ciò ha comportato anche una rilettura dello status del dipinto che, da modello dell'opera di Los Angeles, e’ divenuto un'opera autonoma e, per le sue ridotte dimensioni, destinata al pubblico borghese di Antwerp.

Il dipinto che proponiamo in asta (olio su tavola cm 102 × 78) fu acquistato a Roma verso il 1910, tradizionalmente proveniente da un ramo della nobile famiglia romana dei principi Colonna. Da allora esso rimase sempre in collezione privata: prima negli USA dove era arrrivato nel periodo tra le due guerre, ed in seguito, tramite un collezionista italiano, esso e’ tornato in Italia e per via ereditaria e’ giunto agli attuali propietari, dopo quasi 80 anni nei quali non e’ mai stato proposto sul mercato.
Il quadro fu esposto al pubblico per la prima volta in occasione della mostra, curata da Valentinier, che si tenne a Detroit nel 1946, ove figura come autografo di Rubens, databile al 1607 circa e dunque risalente al suo secondo soggiorno romano.
Nell'ottobre del 1946 il dipinto fu esaminato e studiato da Rodolfo Pallucchini e Antonio Morassi, indipendentemente l'uno dall'altro: entrambi ne confermano l’attribuzione alla mano di Rubens, con interessanti osservazioni stilistiche. Benché fosse esposto alla mostra del 1946, il dipinto, certamente a causa della rarità del catalogo di quella mostra, restò ignoto agli studiosi, che non lo hanno mai menzionato.
Infatti solo nel 1985 esso fu pubblicato per la prima volta, ancora come autografo e con la datazione al 1605 circa da D. Bodart: quest'ultimo ne rilevò “l'affinità stilistica col mondo dei pittori caravaggeschi, in particolare con Orazio Borgianni e ne dichiarò la provenienza Colonna, sottolineando come essa confermava l'ipotesi di contatti tra Rubens ed il cardinale Ascanio Colonna, protettore delle Fiandre, che aveva in quel periodo con sé come bibliotecario il fratello di Rubens, Filippo.
Nel corso del 2001, il dipinto è stato sottoposto a numerose e dettagliate analisi multispettrali che hanno aiutato molto a capirne le vicenda conservativa e la storia.

Esso si presenta in buone condizioni conservative: ha subito un vecchio restauro (eseguito probabilmente nell’immediato secondo dopoguerra) durante il quale la tavola fu assottigliata e ridotta ad uno spessore di 0.25 cm ed in seguito fittamente parchettata. Per questo il retro della tavola non riporta nessuna reale infromazione sulla sua storia.

Dal punto di vista tecnico si puo’ notare che la stesura del fondo e’ rapidissima, e la preparazione e’ in molti punti lasciata a vista in modo da rendere l’idea di una chiara trasparenza e di una buia profondita’, cosa che un colore scuro steso uniformemente non avrebbe lasciato intendere. La pratica di usare la preparazione al risparimo al posto del colore sullo sfondo e’ ben conosciuta ai pittori barocchi e settecenteschi. Le terre della preparazione rifrangono la luce in maniera molto sfumata e rendono lo spazio scuro dello sfondo quasi cavo e pronto ad accogliere i personaggi. Questo accorgimento tecnico, segnale di una stesura del dipinto veloce e perita, non si riscontra nelle altre due versioni, nelle quali il colore nero e’ steso uniforme e compatto, segno del fatto che probabilmente, l’autore aveva davanti un modello da riprodurre e non un’idea originale cui dar vita col pennello.

Nel 1997 la tavola che presentiamo fu sottoposta ad una veloce pulitura che ha rimosso la vecchia patina e le ridipinture che erano soprattutto sullo sfondo. Solo quest’anno (2018), pero’, il dipinto e’ stato oggetto di un restauro completo e di una pulitura piu’ approfondita, che ha messo in luce particolari evitati nel 1997. Per questo motivo, il dipinto non è mai stato ne’ visto ne’ pubblicato come appare allo stato attuale.

La fluorescienza ai raggi U.V. ha messo in evidenza la presenza di patinature nei punti in cui furono effettuate integrazioni durante il vecchio restauro. Le piu’ importanti sono nella barba di Giuseppe, sul suo avambraccio sinistro e su una parte della testa di San Giovannino.
La radiografia ha messo in luce quella che e’ la parte piu’ interessante della stesura tecnica del dipinto, che mette anche dei paletti precisi sulla sua storia e la sua probablie derivazione dalla mano del maestro.
La tavola presenta sotto la pittura delle line oblique ad andamento radiale che sono una sorta di schema prospettico su cui le figure e le loro parti dovevano posarsi. Sempre sotto la pittura si notano parti del disegno preparatorio, soprattutto nei volti di Maria, Giovannino e santa Elisabetta.
I punti con pentimenti e rimodellazioni delle figure sono innumerevoli: Gesu’ non aveva la guancia destra cosi’ pronunciata e nenache il ciuffo di capelli sulla nuca.
La gamba destra di San Giovannino aveva inizialmente una diversa posa. La figura di Giuseppe poteva essere stata abbozzata di una diversa altezza, cosi’ come la schiena di santa Elisabetta.
La Madonna ha soprattutto sul volto un disegno preparatorio molto marcato, mentre la manica destra era stata pensata piu’ lunga.
Le mani di tutti i personaggi hanno subito piccole variazioni: quelle piu’ importanti sono la mano sinistra di San Giovannino che e’ inscritta in un cerchio per facilitarne il disegno, l’indice della mano destra della Madonna e l’ala sinistra della colomba che sono dipinte “a corpo” sopra il braccio sinistro di Gesu’ e sopra il mantello di Elisabetta. Questo rappresenta un altro segno di orignialita’ della composizione che, se fosse stata presa da un modello, non apparirebbe cosi’ rimaneggiata.
Altro significativo ripensamento, segno di quanto il pittore sia stato indeciso sulla statica dei personaggi, e’ la visibile impostazione di alcune dita sul fianco sinistro di Gesu’ Bambino. Questa prima versione del gesto della Madonna avrebbe rispecchiato in tutto e per tutto la tradizione, risalente al periodo gotico e viva per tutto il rinascimento, per cui la madre quasi avvolge con la mano il figlio quando Egli e’ sul suo grembo.
Nel Gesu’ bambino la gamba sinistra ha subito una rilavorazione, e anche la mano sinistra e’ probabilmente la seconda redazione di una prima mano che avrebbe sorretto da se’ il velo che cadeva al suo fianco (nel dipinto del Metropolitan questo velo e’ dorato, addirittura abbellito di motivi ornamentali e quindi pensato gia’ in origine per essere nella posizione in cui effettivamente si trova).
La mano di Gesu’, invece che tenere il velo ormai “passato” alla Madonna, e’ usata per tutt'altro: è chiaro infatti che la colomba non viene passata da san Giovannino a Gesù ma è da questi strappata dalla presa del cugino.
Questo gesto cambia di molto il senso generale del quadro. La colomba infatti potrebbe rappresentare un segno del futuro sacrificio che il Cristo si preparava, con la vita, a compiere. Quello che si svolge tra i due non è quindi semplicemente un gioco (come è stato anche messo in evidenza da alcuni) ma un esempio di sacrificio e responsabilità fornito allo spettatore da Cristo, che si carica del penso del sacrificio di se’ per l’umanita’.
La raffigurazione della colomba in mano o comunque rappresentata insieme a Gesù bambino accomuna questa idea di Rubens al dipinto di Orazio Borgianni “Sacra famiglia con Santa Elisabetta, San Giovanni, la colomba e un angelo che suona il vuolino” consevato oggi a Palazzo Barberini. In questa composizione pero’ Giovannino propone con le proprie mani la colomba a Gesù, prefigurando esplicitamente la sua funzione di precursore di Cristo, di persona che gli offre la grazia e riconosce la superiorità del ruolo e della missione del Messia rispetto alla propria.
Nella composizione di Rubens invece Gesu’ bambino sottrae quasi con arroganza la colomba al cugino che cerca invano di abbrancarla, riuscendo solo a strapparne qualche piuma.
Queste parti di piumaggio della colomba che restano in mano a Giovanni possono essere interpretate come simbolo di eloquenza, conferita al Battista in maniera inequivocabile dallo Spirito Santo.
Nelle due redazioni americane si nota che alcune penne cadono intorno ai due fanciulli, cosa che avverebbe probabilmente nella realta’ se la scena di verificasse. Pur essendo questo un dettaglio in piu’ per il dipinto, e’ anche vero pero’ che esso fa perdere di vista, almeno in parte, il significato simbolico della colomba, che non e’ solo un uccello cui si strappano delle piume ma del quale ogni singola parte ha un preciso significato religioso.
A questo punto ci si ricollegherebbe anche alla frase della lettera di Paolo ai Corinzi che Rubens avrebbe voluto accostare alla stampa: ”Quando ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino: ma quando mi sono fatto adulto ho smesso ciò che era da bambino. I due bambini, dunque, si contendono la colomba fin da piccoli, ma Gesu’, essendo cosciente di dover portare lui quel peso, fa un gesto che da bambini non e’: sacrificarsi per gli altri nella piena coscienza di fare, solo in questo modo, la piena volonta’ del Padre.
La pala di Borgianni sembra “normalizzare” l'invenzione del tipo di gesto che fanno i bambini di Rubens, facendo percepire una uguale coscienza degli accadimenti futuri da parte di entrambi i personaggi.
Come esempio della fortuna iconografica della scena dipinta da Rubens si potrebbe citare anche un dipinto di Carlo Saraceni, che rappresenta “Sant’Anna che porge la colomba al Bambino seduto in grembo a Maria”, anch’esso a Palazzo Barberini a Roma.

Da ultimo l’analisi riflettoscopica ha messo in luce all'angolo inferiore destro a millimetri 15 circa al di sotto del piede, verso destra, una scritta alfanumerica di dimensioni assai piccole, interpretabile come una “P” maiuscola e seguita da quattro cifre che sono leggibili come “1602”. Questi cinque elementi sono tutti ben allineati e regolarmente distanziati: le dimensioni reciproche dei componenti sono tutti congruenti l’una con le altre, cosicché è assolutamente certo che si tratti di una scritta e non di macchie casuali del pigmento o di imperfezioni del legno. La scritta è del tutto invisibile ad occhio nudo, poiché attualmente è ricoperta dalla stesura bruna del fondo. Alcuni micro-fotogrammi scattati in PR hanno rivelato una scarsa differenza cromatica tra la scritta e la stesura del fondo originale, cioè la preparazione a base di terra: ciò fa pensare che la scritta sia stata tracciata con il medesimo pigmento adoperato per il fondale, tono su tono. Una microfotografia effettuata con fluorescenza U.V. mostra una netta ridipintura della lettera leggibile come “P”, e una totale assenza di ridipinture per quanto riguarda il resto della scritta, vale a dire i numeri: questi ultimi risultano dunque contestuali alla stesura originale del fondo, e non risultano aver mai subito alcuna riscrittura o manipolazione: ciò fonda la loro autenticità, e li rende un documento di primaria importanza per la datazione del dipinto. Per il momento non è possibile stabilire se la lettera “P”, in un'epoca imprecisata, fu aggiunta alla scritta preesistente (che in tal caso era dunque limitata alla serie di numeri), o se ci si sia limitati ad effettuare un rinforzo di una traccia (cioè di una “P”) già esistente. Quello che è certo è che a differenza di quanto avviene oggi, un tempo la scritta nel suo complesso dovrebbe essere stata ben visibile, tanto da permettere di aggiungere una lettera davanti ad essa o di ripassarla.
Ciò porta a concludere che almeno in quel punto il pigmento sia costituito da almeno quattro strati: la preparazione a base di terra, la scritta con il nome, eventuale aggiunta della “P”, la copertura che si vede oggi.
È peraltro possibile che la scritta sia stata tracciata non con il pennello ma addirittura con la grafite: in questo caso essa si troverebbe comunque al di sopra dello strato di preparazione e non al di sotto di esso. Da quanto esposto si desume che almeno la scritta con i numeri sia autenticamente contestuale alla stesura del dipinto. I numeri “1602” sono a rigor di logica interpretabili come una data, la quale e’ peraltro riferibile all'epoca della realizzazione del dipinto che si siturebbe quindi non durante il secondo soggiorno romano ma durante il primo.
Si tratta dunque di una data di piccole dimensioni che l'autore ha posto, tono su tono, sullo strato bruno della preparazione, con l'intento di non renderla eccessivamente visibile, come se fosse un appunto, un promemoria ad uso proprio più che del pubblico: è logico pensare che solo un rifacimento del fondo, avvenuto in epoca posteriore, la coprisse.

Il confronto con altri dipinti di Rubens puo’ mettere in mostra come alcuni elementi tornino con caratteri piu’ maturi nella successiva produzione del maestro: nella pala genovese della chiesa del Gesu’ e dei Santi Ambrogio e Andrea, rappresentante la “Circoncisione” (del 1608) o nella “Madonna della Vallicella adorata dagli Angeli” (1608) a Roma sara’ da rivedere per esempio il volto della Madonna della nostra tavola.
Si possono anche fare vari confronti per posa, disegno ed esecuzione tra le mani di altri personaggi del dipinto e quelli di altri quadri del primo soggiorno romano di Rubens: si confronti ad esempio la sinistra di San Sebastiano, nel “Martirio di San Sebastiano” oggi alla Galleria Corsini con quella di San Giovannino che stringe le penne della colomba; la destra di San Sebastiano con la destra di Sant’Anna; la sinistra dell’angelo inginocchiato mentre slega i piedi del Santo con la destra di Giuseppe.

Altro elemento curioso che potrebbe mettere in relazione il nostro dipinto con la paternita’ rubensiana e’ il fatto che in un punto della tavola si possa riscontrare una di quelle piccolissime figure allegoriche, quasi nascoste per gioco nella composizione, che alcuni hanno voluto vedere nelle opere del fiammingo: nella fattispecie sotto l’occhio sinistro della Madonna qualcuno ha proposto di riconoscere un gallo, nello stesso modo in cui tra le gambe della “Susanna e i vecchioni” della Galleria Borghese e’ presente la figura nascosta di un pesce o nel noto “Ritratto di Suzanne Fourment (sorella maggiore della seconda moglie di Rubens) sia dipinta una civetta all’altezza del braccio sinistro o nella “Nativita’” di Fermo sia perfettamente visibile una pelle di leone sulla spalla di un pastore, la quale non e’ piu’ riportata nelle versioni successive della famosa opera.

Ultimo elemento da tenere in considerazone rispetto non solo all’autenticita’ del dipinto in questione ma specialmente riguardo alla sua priorita’ temporale rispetto alle tavole americane, soprattutto alla tavola di New York che e’ considerata la piu’ antica delle due, e’ il dettaglio della cornice.
L’importante supporto, che si presenta riccamente intagliato, e’ databile agli anni 1620-1650, non ha subito alterazioni e dunque e’ con tutta probablita’ stato intagliato con le misure della tavola in mano. Esso incornicia le figure esattamente nel punto in cui esse sono riprodotte nel dipinto ex Moore, dando ipoteticamente un termine post quem alla redazione di quest’ultimo.
Il manto di Giuseppe in vero prosegue di qualche centimetro nella versione romana che presentiamo in asta, chiudendo idealmente il cerchio che il mantello crea nella parte inferiore della figura. Cosi’ allo stesso modo il bordo superiore del dipinto, che nel quadro americano soffoca un po’ la scena, lascia nella nostra versione piu’ respiro e verticalita’ alla composizione. Sulla destra, la veste di Maria non finisce esattamente sul bordo della tavola ed anche la culla ed i tessuti della parte bassa non sono in verita’ tagliati ma finiscono in una morbida curva. Pare insomma che le proporzioni rimpicciolite della tavola di New York siano come state riportate da un dipinto che non lasciava respirare completamente la composizione ma che fosse forse racchiuso da una cornice.

Fine Art Selection
gio 13 DICEMBRE 2018
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